Mancarsi

È piuttosto volgare, il buonsenso. Abbassa il livello delle aspirazioni, valuta le possibilità di successo e soprattutto quelle di fallimento, calcola. Il coraggio, la sincerità e l’istinto non hanno nessuna possibilità di resistergli, se gli dai il tempo di organizzarsi e preparare la controffensiva. L’impulso che ci spinge a cambiare, il vento che rovina, non hanno quegli argomenti, anzi spesso non ne hanno affatto. Non si lascia corrompere da ragioni di convenienza e non pretende di aver ragione. Propone scelte estreme e irresponsabili e non promette risultati. Possiamo assecondarlo o sopprimerlo, prenderlo o lasciarlo, dire sì o no.

È questo il bello.

 

 

Quando dici «mi manchi» all’uomo (o alla donna) che ami, gli stai confidando che avverti la sua mancanza dentro di te; che il tuo corpo si sente incompleto senza il suo a fianco; e che la mente stessa percepisce e rinnega un’inspiegabile assenza. È il suo modo di ridere e di farti ridere, che ti manca; l’odore e il calore della sua pelle; la banalità preziosa dei suoi movimenti quotidiani, la lentezza con cui riempie la moka la mattina per farsi il caffè, ad esempio. A mancarti è la te stessa di cui prendi la forma quando stai di fronte a lui, unico e insostituibile artefice di quella strana metamorfosi che porta la donna che sei a diventare la donna che sai di voler essere.

Percepisci quindi non solo l’assenza di lui, ma anche – e forse ancora più forte – l’assenza di te. Ti guardi allo specchio e vedi riflessa l’immagine di una donna che sa bastarsi, e che basta a sé stessa, ma che amando ed essendo a sua volta amata, sa di poter divenire altro ancora.

La storia di Irene e Nicola è questa qua. È la storia di un’assenza. La storia della mancanza l’uno dell’altra. La storia di due sconosciuti che inconsapevolmente e ad orari differenti si siedono allo stesso tavolo di un bistrot di fronte allo stesso poster di Buster Keaton. E che si mancano, pur senza saperlo. Perché l’unico vero possesso dell’uomo è nelle cose che ha perduto, ci ricorda De Silva citando Franz Werfel, ed è assai più semplice avere coscienza di ciò che non siamo e non vogliamo essere, che arrivare alla vera consapevolezza di ciò che ci manca per essere come vogliamo.

Irene ha sposato un uomo con cui ha smesso presto di essere felice; Nicola ha perso in un incidente stradale una moglie che non amava più, pur senza essersene mai reso davvero conto prima. Due note diverse di una stessa solitudine, che ingombra ed ammutolisce, che annienta, che si frappone tra l’assenza e la contemporanea ricerca – urgente, urgentissima – di felicità.

De Silva ci parla d’amore, che è il recupero furioso di noi stessi, e ci racconta di un incontro che a tratti ci pare destinato a rimanere, sul palcoscenico semiserio della vita, solo un inconsapevole sfiorarsi di anime.

Perché la vita è un attimo.

È questo il bello.