Quando l’imperatore era un dio

Qualcuno si ricorda l’inizio di 7 anni in Tibet? Poche settimane dopo la dichiarazione delle ostilità tra Germania e Inghilterra nel settembre del ’39, il protagonista Heinrich Harrer – nel film interpretato da un ottimo Brad Pitt – veniva fatto prigioniero dagli inglesi (solo perché cittadino del Terzo Reich) mentre era impegnato nella scalata del Nanga Parbat, una vetta del massiccio himalayano.

L’arresto sistematico di cittadini provenienti da nazioni nemiche è una pratica comune in tempo di guerra. Lo si fa per molti motivi: limitare un possibile pericolo derivato da azioni di spionaggio o sabotaggio, perpetrate da persone ancora fedeli alle nazioni di appartenenza; tranquillizzare la popolazione originaria (o che almeno si sente tale); proteggere infine chi spesso ha la sola colpa di essere diverso, quel tanto che basta per essere un possibile bersaglio di vendette quanto mai insensate.

Questo piccolo libro: Quando l’imperatore era un dio, è la storia di una famiglia giapponese residente a Berkley, la città statunitense che ospita la famosa università, e di quello che ha dovuto affrontare (subire) dopo l’attacco a sorpresa a Pearl Harbor, nel 1941.

I nomi non sono importanti, i pochi presenti non sono dei protagonisti. Una tecnica narrativa utilizzata dall’autrice per enfatizzare l’universalità delle situazioni che si vengono a creare. L’impersonalità che diviene la base su cui costruire una storia. – Mi viene da pensare alla tesina di American History X. Opera che tanto bene riesce, in un paio di ore, a comunicare uno dei messaggi più complessi mai provato a mettere su pellicola. – Un marito, ancora in vestaglia e pantofole, preso con la forza qualche settimana prima e un successivo invito, da parte del governo, a lasciare la propria casa assieme ai figli per un campo di raccolta nel deserto dello stato dello Utah. Concentramento. Mettersi alle spalle la casa, il gatto, Cane Bianco e il cespuglio di rose rosse; con nel cuore la volontà di resistere, sperando che tutto finisca presto.

Film d’azione a parte, è il senso di impotenza a fare da padrone nelle nostre vite. Subiamo più i fatti di quanto non saremo disposti ad ammettere. Woody Allen dice che nella vita conta molto di più essere fortunati che avere talento. Penso che ci abbia preso in pieno. Alla fine, un essere umano è impotente verso la stragrande parte degli eventi che avvengono intorno a lui. Chiamatelo Dio, destino, o caos, ma quello è.

In mezzo a tutte queste “variabili” ci sono gli esseri viventi. Una famiglia giapponese americana che voleva soltanto vivere in pace, nel posto che chiamava casa. Se l’imperatore Hirohito fosse o meno un Dio, a loro non importava.